Shukshin's stories è costruito su una serie di piccoli episodi tratti dai racconti di Vasily Shukshin, scrittore, attore e regista cinematografico morto nel
Sono minuscoli ma intensissimi frammenti esistenziali — la giovinezza e la vecchiaia, la vita, il destino, l'inestinguibile fedeltà alle proprie radici — che Hermanis affronta con ironia e tenerezza, facendo vibrare soprattutto le corde di una sottile malinconia. Sullo sfondo si avverte di tanto in tanto la presenza del potere sovietico, evocato però con leggerezza, come una sorta di entità estranea, senza intenti di denuncia o di protesta. Ma l'aspetto più sorprendente dello spettacolo è il suo smagliante apparato formale, che accosta stili espressivi diversi: la scenografia è fatta solo di pannelli fotografici che cambiano di volta in volta, immagini coloratissime, iperrealiste di campi di girasoli, addetti ai trattori, commesse di negozi, e da una geniale, lunga panca su cui siedono e possono camminare gli strepitosi attori. A un lato della panca c'è sempre qualche gruppetto di donne pettegole o di ameni perdigiorno che riferiscono i fatti, mentre altri, accanto a loro, danno corpo ai personaggi di cui si parla. A volte questi ultimi si raccontano da se stessi, in un continuo interscambio tra interpretazione e narrazione. Basta poco, una giacca fuori misura, una buffa acconciatura improvvisata sul momento, per tratteggiare delle irresistibili figurette: e questa chiave un po' straniata asciuga i toni del bozzetto, ne fa una sorta di nitidissimo documento antropologico.
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Shukshin's stories, di Alvis Hermanis. Visto a Milano, al Teatro Franco Parenti